Quando ho cominciato a meditare nel mondo Osho, molto giovane, ero colpita dal concetto martellante per il quale noi non saremmo la nostra mente, molto presente in tutti i discorsi del mio Maestro. Ci imbattiamo in questa idea all’inizio delle nostre pratiche yoga o di meditazione, generalmente intraprese nell’ottica occidentale di “voler stare meglio” e alleviare una sofferenza psichica o fisica, senza sapere che il viaggio in cui ci siamo incamminati va molto oltre al nostro benessere e riguarda la nostra intera concezione dell’esistenza e soprattutto di chi e cosa siamo.
Che non siamo la nostra mente è qualcosa che si capisce soltanto durante gli anni, attraverso una intesa pratica e penetrando un quadro di insegnamenti molto lontani da quelli con cui siamo cresciuti, ovvero le filosofie che vengono dal mondo asiatico. Spesso ci appropriamo di una parte di quei concetti senza avere mai davvero occasione di apprendere la storia e le implicazioni profonde da cui sono scaturite e le aggiustiamo in qualche modo nel nostro quadro di credenze acquisite, sintetizzando una filosofia sincretistica molto individuale.
Vero è che anche in Occidente, con altre parole e altri riferimenti, ci siamo accorti che non siamo solo le parti di noi con cui ci identifichiamo immediatamente: nazionalità, sesso biologico, preferenze e repulsioni scaturite dalla biografia individuale. Sigmund Freud ha aperto la porta su una parte di quelle forze che ci abitano, che ci appartengono e allo stesso tempo sono totalmente fuori controllo e ha dato loro un nome all’interno di una architettura dell’essere ben definita: l’inconscio, questa zona oscura inquietante che produce azioni, emozioni, sentimenti, sogni, idee, lapsus contrapposti all’Io che pensiamo ci riassuma. L’inconscio è qualcosa che profondamente noi siamo e allo stesso tempo sfugge al nostro controllo o addirittura ci domina contro la nostra volontà.
La clinica ci viene di nuovo in soccorso attraverso le parole di Massimo Recalcati che spiega come il primo grande estraneo sia in realtà il nostro stesso cuore:
“Il cuore che ciascuno di noi porta al centro del proprio petto e dal quale dipende la sua vita, batte senza che la nostra ragione o la nostra volontà possano comandarne il ritmo. È un paradosso elementare che si iscrive al centro della vita: il cuore che la mantiene viva, è il nostro cuore, ma è, al tempo stesso, una pompa che agisce a prescindere da ogni istanza di controllo. La vita del cuore trascende la nostra vita pur essendo al centro della nostra vita”.
Che ciò che noi siamo è per un livello fuori dal nostro controllo è esperienza comune anche delle donne in stato di gravidanza: il figlio accade dentro di me, lo sto facendo io e allo stesso tempo non lo sto affatto facendo io. Il mistero della vita si dispiega in tutta la sua grandezza mostrandoci le nostre limitate zone di azione e di decisione. Possiamo accompagnare l’esistente, essere presenti al suo dispiegarsi, ma assomiglia assai più a surfare su una grande onda che a dirigerci volontariamente dal punto a al punto b. Ogni atto è parte di una zona di interdipendenza talmente vasta che è impossibile stabilirne tutte le variabili se non entrando in una matrioska che inevitabilmente finisce per puntare all’infinitamente piccolo.
Oltre che la gravidanza, il sesso è l’altra grande via a portata di mano di tutti in cui incontriamo l’autonomia nell’eccedenza della vita. È infatti l’esperienza di aprirsi al grande Altro in tutte le sue forme a girare inevitabilmente, prima o poi, la chiave della porta sulla presenza di energie che ci abitano e nel contempo trascendono.
Recalcati ci dice ancora:
“La vita del cuore non è un’esperienza perturbante, come direbbe Freud, dove la familiarità più intima e l’estraneità più radicale si intersecano? La potenza autonoma della vita, la sua eccedenza, non è forse sempre in parte straniera a sé stessa?”.
Quando facciamo l’esperienza energetica di realtà come Reconnective Healing, Bioenergetica, Risveglio della energia Kundalini, viviamo quella eccedenza consapevolmente, quell’essere che siamo e allo stesso tempo ci trascende, quell’esistente che non è una fantasia solo in quanto normalmente è fuori dal nostro campo di coscienza. Infatti per proseguire la nostra citazione:
“È qualcosa al quale solitamente nessuno presta attenzione. La condizione perché la vita sia “naturalmente” viva è, in fondo, sempre quella di dimenticarsi parzialmente di se stessa.”
Sia che lo esperiamo come emozioni personali profonde sepolte nel nostro corpo, che grazie a una respirazione profonda prendono il sopravvento sul nostro controllo comportamentale durante una sessione di Bionergetica, oppure come energie cosmiche impersonali che attivano i nostri muscoli come nel Reconnective Healing, o ancora come il serpente primordiale di Kundalini, che erompe dal basso verso l’alto scuotendoci interamente fino ad aprirci al divino, in quei momenti qualcosa ci possiede. Questo qualcosa sono io o non sono io? Sono queste forze altro da me? Chi sono dunque io?
In questa riflessione lasciamo fuori le esperienze di dissociazione tirate spesso in causa per spiegare ciò che la scienza non può spiegare o non vuole neanche prendere in considerazione e di cui alla fine riuscirà comunque ad appropriarsi furbamente, non potendo più negarle, magari cambiandogli il nome come per la mindfulness, termine che riesce a nascondere che ci si occupa di meditazione, per finire per venderla magari con un’etichetta farmaceutica sopra. Dissociazione sarebbero tutte le esperienze fuori dal corpo mentre le esperienze di pre-morte avanzi di attività neurologiche di un cervello morente, in un riduzionismo terrorizzato che tenta di controllare anche esso l’incontrollabile attraverso le etichette, invece di mettersi a servizio con i suoi rigorosi mezzi per capire il funzionamento, allargare gli orizzonti del sapere. Si veda la fine che ha fatto il troppo citato Jung, finito in mano dei ciarlatani dopo che gli è stato vietato l’accesso in certe università che insegnano solo “l’evidence based”. Eppure Jung, attraverso la creazione del concetto di inconscio collettivo ha tentato anche egli di dare nome a fenomeni che fanno a pugni con ogni tentativo di riduzione dell’essere a mero sottoprodotto biologico.
Che si tratti di forze personali rimosse per via del trauma o di insostenibili mancanze o di forme che percepiamo come estranee, superiori, soccorrevoli, noi siamo immersi costantemente in questo grande Altro con le sue sfumature che la nostra mente esperisce come ctonie o celestiali, provenienti dal basso o dall’alto. Il nostro cervello fa del suo meglio per fornirci una illusione di controllo e completare con deduzioni tutto quello che non sappiamo, come ci mostrano chiaramente le moderne Neuroscienze.
Quando incontriamo tutto questo attraverso certe pratiche che pure siamo andati a cercare, allora, proprio allora, erompe anche la paura. Finché parliamo soltanto del fatto che non siamo solo la nostra mente decisionale o razionale, oppure ne discutiamo in un quadro concettuale orientale e occidentale, resta una idea parzialmente innocua. Ma è durante l’esperienza diretta, nella perdita di controllo dei meccanismi corporei, nell’irrompere dei contenuti inconsci, nell’apparire delle visioni (il fatto che derivino dall’eccitazione e dalla scarica neuronale di certe aree visive del nostro cervello non rende l’esperienza meno straordinaria, dato che normalmente non funzionano così), nell’approfondirsi dell’insight e nell’ampliamento della comprensione successivo alla discesa della grazia, noi facciamo esperienza di un confine mentale e di apprendimento limitato che crolla.
La coscienza si è ampliata, come può ampliarsi uno sguardo stanco quando passiamo dagli orizzonti limitati di una città a un panorama di campagna, ossigenandoci, rilassandoci, aprendoci, rendendo i nostri pensieri meno ripetitivi. Tuttavia, quell’inserirsi di una esperienza di spazio nella nostra mente o di una energia altra che improvvisamente fa muovere il nostro corpo, può essere vissuta come una perdita di controllo terrificante. Sembra una banalità, ma non lo è affatto, che il nostro confine mentale ristretto sia famigliare e rassicurante anche se pieno di sofferenza, specie perché non ci richiede di aprirci alla più prolifica ed evitata esperienza umana, quella dell’ammettere che “non lo so”. Di ammettere che forse i nostri interi impianti della realtà, filosofici, psicologici, religiosi non sono che mappe che tentano di rendere intelligibile un mondo gigantesco, che ci sovrasta dall’esterno quanto dall’interno.
Nell’ashram di Osho a Poona, nei primi anni ’90, ricordo chiaramente l’esperienza della paura di impazzire data dai cambiamenti cognitivi profondi indotti dalla meditazione, qualcosa che può accompagnare molti nei loro primi passi nel mondo della non mente, quando le identificazioni tirano come punti di un vestito ormai troppo stretto. Tornare alla finitezza e all’immanenza del corpo, ovvero al rassicurante limite del presente ordinario è sempre una grande chiave per lasciare sedimentare prima e integrare dopo, tutte le esperienze di “non-Io” che determinate pratiche ci accompagnano a fare. Per non parlare dello spavento al crollo del sistema di credenze, alla sensazione che la realtà condivisa stabilita collettivamente sia una menzogna agghiacciante, altro passaggio inevitabile del viaggio interiore che prevede sempre uno stadio di crollo del falso che può accompagnarci anche a scelte radicali nella nostra vita quotidiana.
Non si può tralasciare un altro punto che finirà per emergere inevitabilmente durante un’assidua pratica meditativa e di tecniche energetiche: la paura che tutto ciò che non è sotto l’egida della mente ordinaria sia demoniaco. Purtroppo si tratta di un condizionamento molto forte per chi ha avuto una intensa educazione religiosa e si troverà a sentire le forze che si liberano nel suo corpo come terrorizzanti. Si pensi allo sblocco delle sensazioni sessuali e alla aumentata sensibilità fisica durante le respirazioni di Bionergetica, piuttosto che all’apparire di forze esterne che agiscono in senso curativo sul corpo come durante una seduta di Reconnective Healing. Entrano allora in campo le innumerevoli rappresentazioni religiose inconsce prima e cinematografiche poi della possessione demoniaca, portando l’individuo educato a percepirsi come un pericoloso peccatore, ad avere il terrore di tutto quello che non conosce dentro di lui e quindi ad evitarlo invece che tentare di capirlo.
I condizionamenti ci depistano profondamente ed allontanano ancora dalla conoscenza e sono ancora un effetto negativo delle religioni organizzate che hanno portato il collettivo a dovere, per necessità di bilanciamento, oscillare verso una totale negazione e derisione di quelle forze trascendenti che le religioni hanno perversamente monopolizzato e pervertito per millenni. Passiamo quindi dalla superstizione e dal terrore alla negazione feroce di tutto ciò che non è ancora stato spiegato scientificamente e non fa parte della esperienza ordinaria accettata come condivisibile in quanto comune.
Qui non si sta certo parlando degli effetti di distorsione della realtà che provengono da una sofferenza psichica profonda, dominio della psicopatologia e che pure finiscono talvolta per aprire porte ignote in alcuni e creare un parziale attaccamento in che ne soffre, un discorso ampiamente trattato da chi di dovere nelle sedi appropriate. Tuttavia, vale la pena di sottolineare che patologizzare ogni forma di esperienza stra-ordinaria è una attitudine estremamente violenta, non meno di quella di demonizzarla o negarla in toto.
Ecco dunque che quando incontriamo quella famosa “eccedenza” al nostro stato di coscienza di tutti i giorni ci sono molte forze interne ed esterne che possono portarci ad avere una intensa esperienza di paura e causare resistenza al flusso della coscienza.
Riassumendo: la perdita di controllo del corpo, la paura delle proprie emozioni represse, l’emersione di ricordi dolorosi, la sensazione di presenze invisibili o di energie che agiscono nel corpo dall’esterno per guarire e percepite come potenzialmente malintenzionate, possono frapporsi tra l’esperienza e la capacità di restare presenti ad essa senza subirla, osservandola e nel caso anche decidendo di interromperla. Qui si apre anche un capitolo che però non verrà trattato in quanto questa non è la sede corretta: il bisogno di tarare esperienze di meditazione e interventi di ogni genere su soggetti fortemente traumatizzati, per cui certe tecniche potrebbero fare più male che bene.
Per quello che mi è dato di capire però, per chi si incammina senza fardelli troppo pesanti sulla strada della scoperta di sé, il solo modo per superare gli ostacoli sopra descritti è una rilassata e paziente insistenza accompagnata da una attitudine aperta e nel contempo scientifica che fa uso del più potente dei mantra: “non lo so”. Restare presenti, accogliere la paura, ascoltarla sempre con rispetto in quanto meccanismo evolutivo e imprescindibile ma anche non identificarsi con le sue voci e metterle in discussione quando possibile, non è solo un esercizio cerebrale estremamente consigliabile ma anche una via sicura per espanderci verso una visione sempre più ampia di ciò che è la nostra realtà. Oltre a questo il confronto con chi è già passato per certe strettoie prima di noi, può certamente rassicurarci. Non c’è niente che valga la pena affrontare come il viaggio di conoscenza di noi stessi in quanto esseri multidimensionali e come da definizione del dottor Eric Pearl, trans-sensori, anche se il prezzo è sacrificare una realtà conosciuta per una che ci costringe ad ammettere che non sappiamo molto neanche di noi stessi.